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Le dissonanze di una vita al fronte

Il dottor Flavio Del Ponte ci racconta il suo sogno: portare ed ancorare nelle università svizzere una sotto specialità riconosciuta in Medicina Umanitaria.

“Solo oggi, qui, a fine corsa, mi accorgo di una vita così variata e appassionante che m’è passata accanto quasi senza che me ne accorgessi”. 

È il 4 ottobre 2024 quando questa vita diventa un libro (“Dissonanze – Storie di un chirurgo di guerra”, Armando Dadò editore) che si srotola in 389 pagine alle quali fa seguito un’appendice introdotta da questo titolo: “Possono delle fotografie cambiare il mondo?”. La domanda torna d’attualità il 13 gennaio 2025 quando, a Cecina, muore Oliviero Toscani, il fotografo che con le sue immagini ha veicolato concetti anticipatori di una società in evoluzione (o involuzione). Fotografie belle, curate, iconiche le sue. L’esatto contrario di quelle proposte su quel libro che, da qualche tempo ormai, occhieggia dal mio comodino proponendo anche foto che testimoniano ciò che la guerra provoca e lascia - prima, durante e dopo - nella vita di una persona. 

È proprio il 13 gennaio che scatta l’idea di chiedere un incontro all’autore di libro e foto. Lo raggiungiamo – via mail – all’estero, più precisamente a Vienna. È da lì che ci risponde “proprio dopo discussione animata con il nostro ambasciatore presso l'OCSE. Sono riuscito a convincerlo che le foto toste che s'accompagnavano al mio discorso ufficiale per la celebrazione dei 75 anni delle Convenzioni di Ginevra andavano mostrate al pubblico presente, diplomatici e funzionari, saputamente restii a lasciarsi coinvolgere emotivamente”. Il fatto che l’obiettivo dichiarato sia partire da queste foto favorisce la risposta positiva per il richiesto incontro. 

È il 5 febbraio quando a Lugano salutiamo - all’angolo che Palazzo Civico disegna tra piazza della Riforma e piazza Manzoni - il dottor Flavio Del Ponte, chirurgo di guerra. È la prima volta che ci vediamo, ma è come se ci conoscessimo da tempo. Prima i saluti di rito, poi lui prende il cellulare e mi dice: “Guardi. È un quadro che ho a casa mia a Bignasco. È il mio preferito”. I miei occhi si posano su pennellate minute e precise, colori tenui, ma luminosi, che parlano di primavera incipiente e illustrano il medesimo angolo nel quale ci troviamo in quel momento: via Luvini alle spalle, il lago di fronte e le piante a fare da sentinelle a Municipio e bar sottostante. “Sa, quand’ero piccolo, per me venire a Lugano era sinonimo di viaggio in famiglia ed era una gioia. Partivamo alla mattina - o con la mamma o con il papà (insieme non potevano venire perché essendoci un albergo da gestire qualcuno doveva sempre restare in sede) - e arrivavamo qui in città a metà giornata. L’Olimpia era quasi una tappa obbligata, ma di volta in volta scoprivamo qualcosa di nuovo: la funicolare del San Salvatore o quella del Bré, le chiese, il parco e poi l’Innovazione con le prime scale mobili e il gelato soffice che usciva da una macchina. La sera dormivamo all’hotel Brünig e l’indomani, in tarda mattinata, ripercorrevamo la strada per tornare a casa, in Valle Maggia. Forse è anche per questi ricordi che a me piace sempre venire a Lugano”. Sorride ed entriamo. Ci sarebbero tante cose di cui parlare con quest’uomo che ha percorso e conosciuto il mondo in lungo e in largo, ma… tempus fugit e allora andiamo subito al dunque.

Dottor Del Ponte, perché ha deciso di pubblicare queste foto che sono davvero crude e crudeli?

“Per lo stesso motivo per cui ho deciso di pubblicare il libro, ovvero: denunciare la guerra, per quello che è, al di là delle decisioni dei politici e degli interessi di certa economia. La guerra, come diceva Gino Strada, ‘è uno schifo e non dovrebbe esistere’. Invece esiste e quando il 24 febbraio del 2022 la Russia ha attaccato l’Ucraina, tornando ad essere una realtà anche nell’emisfero occidentale, sono andato letteralmente in crisi. Non sono riuscito a dormire per diverse notti e mentre incredulo, davanti alla televisione, guardavo passare le centinaia di carri armati, contemporaneamente vedevo le migliaia di feriti e sofferenti che nel corso degli anni mi sono stati ‘spacchettati’ sul tavolo operatorio. Vedevo, soprattutto, le centinaia di bambini e bambine dilaniati dalle bombe, ma anche dalle mine antiuomo, senza i piedi o con le tibie scarnificate o senza le mani o entrambi gli arti inferiori. Mi sono detto che dovevo loro almeno la mia testimonianza dell’orrore che erano stati costretti a subire in nome della guerra. Il mio “Dissonanze” nasce così, ma sapevo che, a volte, le parole non bastano. E allora sono andato a recuperare le foto di quei miei giovanissimi pazienti ai quali la guerra aveva strappato il futuro e le ho pubblicate in appendice. La guerra è tornata ed è molto vicina a noi – in Ucraina, ma anche sull’altra sponda di quel Mediterraneo che per molti è solo sinonimo di vacanze al mare -. La guerra è tornata e voglio che si sappia che anche quella che è vicina a noi compie i medesimi orrori che ha prodotto in Cambogia, Vietnam, Laos, Pakistan, Afghanistan, Rwanda, Iraq, Somalia, Kuwait, Haiti. Può anche non crederci, ma io – che non sono una mammoletta – ogni volta che mi sono trovato a dover intervenire su bimbi feriti dalla guerra provavo un nodo in gola, una sensazione invalicabile, un rifiuto profondo ed assoluto della violenza che il potere di alcuni miserabili adulti esercita su dei bambini. Un chirurgo di guerra ha il dovere morale di denunciarla, la guerra. Io l’ho fatto e, lo dico a mia discolpa, finalmente!”. 

Ci spiega cosa significa “non essere una mammoletta”?

“Vuol dire che se per svolgere la professione di chirurgo già devi aver raggiunto un buon equilibrio personale, per passare ad essere chirurgo di guerra devi accettare di trovarti confrontato con l’inenarrabile senza cedere di fronte alla disperazione e all’orrore. Ma, glielo assicuro, non ci sono parole sufficienti per descrivere ciò che si prova davanti ai corpi straziati che ti vengono portati, in qualsiasi posto del mondo, con un’unica uguale preghiera - ‘Dottore, non lasciarmi morire! Curami!’ - che a volte erano solo gli occhi a rivolgere. Non ci sono parole adeguate e in grado di spiegare ciò che ti passa nell’anima mentre, a dipendenza del numero di persone in attesa di essere ‘trattate’, si deve persino decidere chi far procedere per la sala operatoria e chi, invece, inviare nel locale – o nella tenda – dove, con anestetici potenti, l’attesa della fine è meno atroce e dolorosa. Non ci sono parole che spiegano la nausea che ti assale quando devi intervenire su un addome squarciato dall’esplosione di una mina antiuomo e trovi che al suo interno si sono installati, in un groviglio inestricabile, gli ascaridi, semovibili e lunghi vermi biancastri già impegnati a divorare una persona ancora viva”.

Sono queste le “Dissonanze” delle quali racconta?

“No, questi sono i frutti delle dissonanze che stanno a monte, dissonanze che nascono in mondi più vicini al nostro e dove, in nome di un supposto benessere, viene deciso il destino di altre persone alle quali a parole si riconosce lo status di ‘essere umano’, ma che nella pratica si considerano alla stregua di ‘pietre d’inciampo’ o, con un’espressione che trovo terribile, come semplici ‘danni collaterali’. Queste sono le dissonanze: i sorrisi, i bei discorsi, gli impegni, i ricevimenti, le garanzie, i proclami che si susseguono in modo armonico e persino armonioso, ai quali fa però seguito quel silenzio assordante che il perseguimento di obiettivi ‘altri’ da quelli conclamati necessita permettendo così che si protraggono le sofferenze di centinaia di migliaia di persone”.

Dottor Del Ponte, lei ha lavorato per 14 anni con la Croce Rossa Internazionale come chirurgo di guerra; dal 1994 è stato consigliere medico presso la Divisione del mantenimento della pace del Segretariato dell'ONU, dell’allora Sottosegretario generale Kofi Annan; poi è passato al settore dello sviluppo e della cooperazione come capo consigliere medico dell'Aiuto Umanitario svizzero e quindi le chiedo: si può uscire da questo mondo a doppia velocità e, in caso affermativo, come?

“Non c’è, è ben evidente, un’unica soluzione. Io, però, sono un medico e come medico posso dirle che si può uscire da questo doppio modo di considerare il genere umano applicando, semplicemente, i principi fondanti della nostra professione: ‘(…) giuro di curare tutti i miei pazienti con uguale scrupolo ed impegno indipendentemente dai sentimenti che essi mi ispirano e prescindendo da ogni differenza di razza, religione, nazionalità, condizione sociale e ideologia politica (…)’. Poi, per far sì che laddove l’arte medica imparata non è sufficiente (sto pensando ai territori di guerra) ecco il bisogno inderogabile di conoscere, di accedere alla Medicina Umanitaria che, oggi più che mai, è una necessità assoluta, richiesta ovunque proprio perché ‘promuove, fornisce, insegna, supporta ed assicura la salute dei popoli come diritto umano in conformità con l'etica dell'insegnamento ippocratico, i principi dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, la Carta delle Nazioni Unite, la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, le Convenzioni della Croce Rossa e altri accordi e pratiche che assicurano il livello di cura più umanitario e migliore possibile, senza discriminazione o considerazione di guadagno materiale’. In un momento della storia dell’umanità in cui la sofferenza fisica e mentale stanno prendendo piede ovunque, la Medicina Umanitaria è una specializzazione alla quale i medici che lo desiderano devono poter accedere”.

È una specializzazione che esiste o che si deve inventare?

“Se oggigiorno sappiamo o crediamo di sapere cosa sia l’Aiuto Umanitario, quando si parla della Medicina Umanitaria il discorso non è per nulla chiaro. A partire dagli anni ’80 anche la Svizzera, che disponeva di un Corpo di Aiuto in caso di catastrofe, volle adeguarsi ai mutati bisogni – conseguenza dell’esplosione di conflitti e crisi mondiali - modificando ed aggiornando le sue risposte in ambito umanitario. Fu così che il Corpo di Aiuto in Caso di Catastrofe divenne il Corpo di Aiuto Umanitario del quale la medicina è parte integrante. Ma quali sono le componenti essenziali, la dottrina, le regole, i mezzi di questa medicina? Visto che una trasposizione della nostra medicina – quella, tanto per capirci, offerta negli ospedali svizzeri – risulta quasi impossibile in scenari di guerra, c’è una sola via praticabile: la formazione specifica di medici e personale sanitario in una specifica medicina da applicare in caso di guerre, catastrofi e crisi estese. Un tema in discussione da tempo. Pensi, era l’inizio di questo XXI secolo quando mi sono trovato a far parte del team di docenti dell’EMDM (European Master in Desaster Medicine) uno dei primi master europei in medicina delle catastrofi proposto online su iniziativa di due università: l’Università Libera di Bruxelles e quella del Piemonte Orientale di Novara. Il mio modulo, il settimo, trattava delle ‘Urgenze umanitarie complesse’. Il corso dell’EMDM durava due anni e i partecipanti, tutti già laureati, provenivano da ogni parte del mondo. È da allora che mi è chiara la necessità di avere una definizione precisa di cosa sia la Medicina Umanitaria e quale posto debba esserle riservato all’interno dell’Aiuto Umanitario. C’è mancato poco che a Ginevra si riuscisse a dar vita a un centro internazionale di educazione e ricerca della medicina dei disastri. Le facoltà delle università di Ginevra e Losanna avevano risposto positivamente. Le basi erano state gettate e il sogno stava per tradursi in realtà senonché quasi tutti gli svizzeri che avevano dato il la al progetto arrivarono al pensionamento (tra questi anch’io) e uno dei principali artefici, il medico in capo dell’esercito svizzero, il ticinese Divisionario Giampiero Lupi, morì nel 2013. Il risultato? In Svizzera, nonostante la tradizione nell’ambito dell’Aiuto Umanitario, quella che potrebbe essere una sotto specializzazione in Medicina Umanitaria non c’è e questo primo tentativo di agganciare la Medicina dell’Umanitario in ambito universitario fece cilecca”.

Vuol dire che vi ha rinunciato?

“No, tant’è che con il Professor Giovanni Pedrazzini, cardiologo, attivo in progetti umanitari in Africa e India, e con il fondatore dell’EMDM, il prof. Francesco Della Corte, stiamo valutando la possibilità di inserire un percorso di formazione in Medicina Umanitaria per gli studenti che frequentano la facoltà di scienze biomediche all’Università della Svizzera italiana. Parallelamente mi sto impegnando perché venga chiarita quale dovrebbe essere la “dottrina riconosciuta” come base della Medicina dell’Umanitario con il principio che già Gino Strada considerava come connaturale: la sua gratuità”.

Dottor Del Ponte, in mezzo a tutto ciò, riesce a trovare il tempo per le altre dissonanze di cui sono costellate la musica e la vita? 

“Sì, ci riesco perché la musica e le sue dissonanze mi accompagnano da quando, ragazzino, andavo a lezione di pianoforte dal professor Walter Rüsch. Lui amava Beethoven e Liszt. Forse è proprio per questo che per le loro dissonanze, seppur per motivi diversi, non mi sento in dovere di trovare il tempo, ma in compenso il tempo lo trovo con gioia per le dissonanze di Bach e di Chopin che mi trasportano, senza che me ne accorga, lasciandomi certezza di protezione assoluta e fiducia in una risoluzione giusta e felice. Poi, visto che mi considero un po’ il mastro Geppetto di questo libro che è il mio Pinocchio, vorrei forse dargli un fratellino che gli racconti della mia infanzia e giovinezza nella mia Valle Maggia dove in fondo tutto ebbe inizio e dove il Fondo del Sacco l’avevo visto e vissuto non solo in sogno. Infine, ne sono consapevole, anche per me è poi in arrivo l’ora della risoluzione dell’ultima dissonanza, quella della mia vita e io sono quasi impaziente e curioso di viverla”.