Non avendo trascorso a Foroglio la notte maledetta del 29, la mattina del 30 giugno 2024 ero a Cavergno. Al risveglio niente più luce, acqua, internet. Brutti segnali. È bastato oltrepassare la porta di casa per intuire, senza ancora sapere quasi nulla, che non era come le altre volte (che pure erano state, ad esempio nell’Ottantasette, toste). L’aria era impregnata dell’odore di fiume marcio che trasporta terra. La poca gente per strada aveva lo sguardo smarrito, in cielo un traffico mai visto di elicotteri. Bisognava saperne di più. Il primo ‘punto sociale’ è il ponte sulla cantonale a Bignasco. Lì, per trasmissione orale, cominciano a circolare le prime notizie. Alcuni morti a Fontana, il disastro in Val Bavona, qualcosa di brutto anche in Lavizzara. Tappa successiva, il ponte di Visletto, a Cevio. Vederlo mezzo crollato non significava solo che la notte era stata terribile e che da quel momento l’Alta Valmaggia era isolata fisicamente. Significava soprattutto che la per la nostra metà nord della Valle, già in forte difficoltà (demografia, debolezza economica, servizi, inselvatichimento del territorio) cominciava un ulteriore cimento, arduo da risolvere nei fatti, subdolo per la sua capacità di scavare nella psiche personale e collettiva. Nelle vicinanze del ponte per alcuni giorni c’è stato un viavai incredibile: lì si captava in qualche modo il segnale internet e tutti, abitanti e turisti, cercavano davanti a un ponte ruinato un ponte virtuale con il loro mondo. Per rassicurare, per dire a sé stessi che là fuori la vita non era cambiata.
Per quel che valgono i confronti, tutto il resto del disastro che ha colpito la Val Bavona in fondo s’è già purtroppo visto in anni abbastanza recenti. Ma la frana tra Mondada e Fontana, no, è qualcosa di inedito che nessuna generazione vivente ha conosciuto e nemmeno sentito raccontare da quelle precedenti. Da una piccola valle laterale sono precipitati un numero infinito di massi, alcuni grandi come e più di case. Una micro apocalisse di pietre rotolanti che ha travolto, stravolto per sempre una consistente fetta di paesaggio antropizzato da secoli. La natura ha voluto ridisegnare la natura, quando lo fa non chiede permessi, non si emoziona, non pensa alla gente e alle case sotto, agli animali. Siamo noi che crediamo di dominarla, che le attribuiamo aggettivi, intenzioni, simboli.
Il 2 luglio sono tornato a Foroglio. A piedi, sopra la frana e le altre frane. Un viaggio strano, decine di foto delle devastazioni, l’alternanza beffarda tra spazi intatti e quelli distrutti. L’incredulità. La rabbia. A Foroglio non è successo nulla, dalla cascata continuano a scendere milioni di litri di acqua alpina destinati al mare vicino a Venezia, le tre mostre d’arte inaugurate pochi giorni prima sono lì come fantasmi muti. Di nuovo c’è che la mia piccola azienda, irraggiungibile pro tempore, è incagliata nelle secche di un futuro incerto. Lo confesso: rivedere La Froda m’ha bloccato il respiro. È un’isola che per vocazione quasi secolare condivide la sua forte identità territoriale con la gente di tutto il mondo. È un luogo potente, unico, minacciato, ma per tornarci sono disposto a combattere.
Un pensiero ai morti.
Con C. ci conoscevamo fin dalla tarda adolescenza. Motorini da truccare, partite infinite a footbalino, qualche altra scaglia di vita. Ci siamo spesso persi e ritrovati, abbiamo bazzicato in mondi diversi. Da molti anni passava tanti giorni della bella stagione in Val Bavona. Quando veniva a Foroglio cercavo il tempo per starci un po’ assieme. L’ultima volta, l’estate scorsa, durò una serata intera. “Aveva i capelli lunghi e grigi, la papalina e gli occhi lucidi di chi invecchia”, ne avevo scritto in un ritratto per una rivista. Era un marginale, quella gente spesso mi piace. Nelle prime ore del 30 giugno la frana lo ha sradicato assieme alla sua compagna di vita. Quel che restava del corpo l’hanno trovato ai bordi del fiume a Riveo, dieci chilometri distante. Ci vorrebbe Poe per descrivere l’orrore di quell’ultimo viaggio.