A Filadelfia la chiamano “Ben on the Bench”. È una panchina di bronzo, donata alla University of Pennsylvania dagli alunni della classe del 1962. Sul lato destro siede Beniamino Franklin, fondatore dell’università. È raffigurato nell’atto di leggere la Pennsylvania Gazette, in altri tempi voce dell’opposizione coloniale alla corona britannica, oggi giornale del campus. Il lato sinistro è vuoto. Forse un incoraggiamento ad accomodarsi e a dialogare che il vecchio Ben rivolge a tutti noi. Un confronto che, certo, sarebbe opportuno oggi più che mai. Ci aiuterebbe ad inquadrare quel complesso dibattito sui confini e sui limiti della libertà di parola, sancita dal primo emendamento alla Costituzione, che infiamma gli Stati Uniti, dai campus ai media, dai “Tycoon” della finanza fino al Campidoglio. Sì, come tornerebbe utile accogliere l’invito di Franklin. In fin dei conti è lui che, di quell’emendamento, è stato primo firmatario.
Sarà utile partire dai fatti. Le azioni antisemite che hanno afflitto i campus di Boston, di Filadelfia e di molte altre città sono reali e ben documentate. Svastiche sui muri delle aule, oltraggio alle immagini degli ostaggi affisse nelle bacheche, aggressività verbale e molestie individuali per le strade. Nessun clamoroso atto di violenza, per fortuna, ma numerosi esempi di “harassment”. La denuncia, partita da decine di associazioni studentesche di matrice ebraica, è stata corale, la richiesta di repressione forte. Un atteggiamento ben comprensibile in chi, in prima persona, ha subito l’urto psicologico degli orrori del 7 ottobre. Ma quali sarebbero i termini di una reazione adeguata? È presto detto: vietare di esporre bandiere palestinesi, vietare di pronunciare la parola “intifada”, vietare di cantare “dal fiume al mare”. E quale la pena per chi si macchiasse di questi atti, rendendosi in tal modo reo di un “presunto” atto di istigazione al genocidio degli ebrei? L’espulsione. Una via da seguire? Sicuramente no, lascia intendere il deputato democratico Bobby Scott, nel dichiarare di fronte al Congresso che la risposta alle parole d’odio consiste nell’educazione, non nel divieto di espressione.
Intervenire, certo, era necessario ed urgente. Questo è stato fin da subito ben chiaro a Elisabeth Magill, Claudine Gay e Sally Kornbluth, presidenti, rispettivamente, della University of Pennsylvania (Penn), di Harvard e del Massachusetts Institute of Technology (MIT). Tre donne a capo delle migliori università americane? Niente da dire, visti i curricula stellari e la provata competenza. Anglosassone e giurista la prima, di colore e studiosa di scienze politiche la seconda, ebrea e biologa la terza. Si sono mostrate pronte nel condannare i deprecabili avvenimenti in parola e nell’attuare conseguenti piani di azione volti a garantire la sicurezza fisica e psicologica nei campus. Hanno proposto percorsi di coinvolgimento delle associazioni studentesche, ebraiche e no, nello sviluppo di soluzioni atte a combattere l’intolleranza in genere e l’antisemitismo in particolare, educando la comunità universitaria alla valorizzazione della diversità. Certo, nella visione delle parti lese nessuna condanna è mai abbastanza immediata e nessuna azione sufficientemente incisiva. Si tende a chiedere sempre di più, Ma il vietare, vietare ed ancora vietare è destinato ad oltrepassare i confini delle libertà individuali, in particolare della libertà di parola. Come proibire a un ragazzo che vede nei telegiornali quanto succede a Gaza di cantare una canzone di protesta? In Europa, non poche città ci hanno inizialmente provato, per poi arrendersi all’evidenza e limitarsi a contenere il fenomeno entro i confini di appropriate misure di sicurezza. Così è ad esempio accaduto nella stessa Berna. E poi, di quale reato esattamente stiamo parlando? Sally Kornbluth, assai credibile in materia in quanto ebrea, dichiarerà di non essere al corrente di alcuna istigazione al genocidio avvenuta nel campus del MIT. A suo avviso, non è infatti possibile estrapolare canti studenteschi in cui è menzionata la parola intifada in espliciti atti antisemiti. Le farà eco Erik Maskin, anch’egli ebreo, premio Nobel per l’economia nel 2007, che dichiarerà: “Non vi è antisemitismo a Harvard”.
Giunge l’ora di lasciare i campus del Nordest per assistere alla resa dei conti. Siamo a Washington DC, nelle sale delle Commissione educazione e lavoro della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti. Il tema della sessione è la responsabilità dei leader delle università nel combattere l’antisemitismo. Presiede Virginia Foxx, ottant’anni, repubblicana, da molti tacciata di suprematismo. Per cinque lunghe ore Magill, Gay e Kornbluth illustrano le azioni intraprese dalle rispettive istituzioni, rispondendo alle domande sempre più aggressive di una commissione che non sembra certo ben disposta. Poi, il dramma. Sale sul podio Elise Stefanik, repubblicana, anche lei vicina ad ambienti suprematisti. Conosce bene Harvard, dove ha fatto parte del corpo accademico fino al 2021, quando ne è stata espulsa in seguito all’accusa di aver diffuso false notizie circa frodi elettorali nelle elezioni presidenziali. Il bersaglio è Elisabeth Magill di Penn, che fino ad ora si è destreggiata con ordine. Da lei, Stefanik esige risposte “sì o no” a domande su cui quest’ultima argomenta invece in modo articolato. Ed ecco l’affondo finale. Nonostante Magill abbia ripetutamente dichiarato quanto Penn combatta l’antisemitismo, alla domanda se invocare il genocidio degli ebrei sia contrario al codice di condotta di Penn stessa, la risposta è “dipende dal contesto”. Una risposta comprensibile se, e solo se, riferita alla vaghezza della domanda. Magill ha lavorato alla Corte Suprema e ben comprende le insidie di una risposta diretta. Con parole quasi identiche risponderanno poco dopo Gay e Kornbluth. “Purtroppo, le tre presidenti hanno scelto di discutere con serietà le implicazioni costituzionali di una domanda complessa. Questo è stato l’errore che le ha condannate”, commenterà ancora Bobby Scott. Errore che forzerà alle dimissioni le prime due e metterà alla gogna la terza, che pur a tutt’oggi resta in sella grazie alla piena solidarietà del suo Board of Trustees.
Di fronte alla Corte internazionale dell’Aia a difendersi dall’accusa di genocidio oggi è Israele e non certo gli studenti che sventolano bandiere nei campus del Nordest. Ma qui, in America, dove il dibattito è più sfumato, il braccio di ferro fra élites “liberal” e avanguardie suprematiste preannuncia battaglie che vanno ben oltre la disciplina nei campus. La prima battaglia, giocata di fronte ai giudici, è la non incriminabilità di Donald Trump. La seconda, questa volta al cospetto del popolo, la corsa alla Casa Bianca. Che ci si trovi di fronte a una lotta di potere è confermato dalla velocità con cui la polemica nata nelle università si è spostata dalla libertà di parola alla governance, che i generosi ma sempre meno benevoli donatori privati desiderano condizionare, nominando trustees di loro fiducia. La posta in gioco è il modello educativo per le generazioni del futuro. Ma, nota con autorevolezza il Financial Times, come è possibile che una istituzione come Harvard, dall’alto di un fondo di dotazione di cinquanta miliardi di dollari, si lasci dettare le regole da chi di dollari ne dona qualche decina di milioni? Un chiaro segno di debolezza. “Money talks”, si dice oltre Atlantico, ancora una volta ne abbiamo la riprova.
Non per essere pettegoli, ma chi sono questi moderni mecenate? In via generale, rappresentano la nuova finanza, innovativa, intelligente ed ebraica, ma non necessariamente la più vasta economia americana. Hanno i mezzi necessari per finanziare con generosità la cultura, in America come in Israele, ma anche per condurre campagne volte a condizionare l’opinione pubblica sui giornali, sui network televisivi e, ancor più, sui social media. Un primo protagonista si chiama Marc Rowan, fondatore di Apollo Capital Management. Alumnus della Wharton School di Penn ha chiesto e ottenuto la testa della Magill, per poi premurarsi di finanziare cene elettorali di Virginia Foxx, a riprova di una innaturale alleanza. Il secondo protagonista si chiama Bill Ackmann, il grande capo di Pershing Square Capital. Diplomato a Harvard, ha successivamente accumulato una fortuna personale di quattro miliardi di dollari ed un seguito di 1.1 milioni di followers su X.
Con la forza di questi numeri, si è distinto nella campagna per defenestrare la Gay, sostenendo un’indagine su presunti plagi nel suo lavoro accademico. Pur negando il fatto ma ammettendo solo alcune ingenuità nelle citazioni, la Gay alla fine si è dovuta dimettere. Eppure, dalle colonne del New Yorker, Stephen Voss, una delle presunte vittime del plagio, ha dichiarato di non aver nulla da rimproverare alla Gay. Ed ora per Ackmann giunge il momento di attaccare Kornbluth, lanciando una nuova indagine su eventuali plagi, questa volta al MIT. Le sue armi? X, Fox News, un uso strumentale dell’intelligenza artificiale. Ma ecco arrivare la buccia di banana. Sua moglie, Neri Oxman, in passato professoressa al MIT, viene a sua volta implicata in un caso di plagio, che ammette. Apriti cielo! A portare l’accusa è stato Business Insider, periodico del gruppo Alex Springer. La reazione di Ackmann non si fa attendere: porre pressione sugli azionisti per zittire i giornalisti che conducono l’inchiesta, allo stesso modo in cui pone analoga pressione sui consigli di amministrazione delle società in cui investe e sui board of trustees delle università. Il Guardian lo definirà “un prepotente”. “Pensa che danaro sia un sinonimo di saggezza”, commenterà il Professor Gregg Gonsalves della Yale Law School.
Che storia! Tycoons contro intellettuali. Donne contro donne. Ebrei contro ebrei. Sedendo idealmente nel posto libero sulla panchina di Franklin non posso resistere dal domandargli: “Tu, vecchio Ben, a chi affideresti il sistema universitario del futuro?”. Al malizioso Bill Ackmann oppure all’idealista Elisabeth Magill? Avrà forse ragione la professoressa Claire Flinkenstein quando scrive che il sistema universitario americano ha esagerato nell’elevare il valore della libertà di pensiero ad un livello sacrale? Il ripensamento delle regole che oggi si impone spetta però alla società civile, non a chi getta pacchi di dollari sulla bilancia. Nel frattempo, ondate di tempo polare affliggono la costa Nordest degli Stati Uniti. Il gelido inverno delle università non è terminato.