Fine Ottocento. La seconda rivoluzione industriale è partita da poco (1870), ma il lavoro di semina e raccolto nei campi è quello di sempre e, soprattutto nelle risaie, sono le donne ad essere impiegate da mattino a sera per pochi spiccioli. Sono proprio le donne a dare il “la” ad una rivoluzione che unirà lavoratrici e lavoratori in una lega che condivide aspettative e rivendica giustizia. “Sebben che siamo donne” diventa una canzone che si trasforma in inno.
“Sebben che siamo donne” è il titolo di questa rubrica che, mese dopo mese, vuol farvi conoscere donne speciali. La prima ospite, a settembre 2022, è stata Carla Del Ponte; poi, nei tre mesi successivi si sono raccontate a Lib- Laura Silvia Battaglia, Federica De Rossa e Valeria Doratiotto Prinsi. Da gennaio 2023, si sono succedute: Roberta Cattaneo, Sandra Manca, Monica Duca Widmer, Franca Verda Hunziker, Rosanna Michelotti, Gabriella “Gaby” Malacrida, Morena Ferrari-Gamba, Elvira Dones, Anna Giacometti, Elisabetta Morandi e, a dicembre 2023, Giovanna Masoni. Prima ospite di “Sebben che siamo donne” del 2024: Cristina Maderni, alla quale è seguita, a febbraio, la rettrice dell’USI, Luisa Lambertini. A marzo, è stata con noi Barbara Robbiani Sacchi, ad aprile Maria Cristina Regazzoni, a maggio Cecilia Beti e oggi, con noi, c’è …
È uno dei rari giorni pieni di sole capitati tra fine aprile e inizio maggio. Lo sguardo, mentre la stiamo aspettando, scivola tra boschi verdeggianti fino a raggiungere spicchi di lago. Era da tempo che non salivo a Bigorio. Da lì, inutile negarlo, il mondo sembra più bello. Un orizzonte a 220°, dai Denti della Vecchia al Gradiccioli. I pensieri si rincorrono quando dalla strada che sale verso il convento ecco scendere, a passo sicuro e veloce, un ragazzino. Si ferma davanti alla scala che dà accesso alla trattoria. Mi guarda. Ci guardiamo. Ci sorridiamo e poi… la sorpresa: quel ragazzino è la persona per la quale sono tornata a Bigorio. Quel ragazzino è Silvia Metzeltin Buscaini, classe 1938, geologa, alpinista, femminista, giornalista e scrittrice. Minuta, piena di energia, ha gli occhi che sprizzano gioia e un sorriso contagioso. “Buon giorno. Finalmente ci conosciamo”. Già, non ci eravamo mai incontrate prima. Sembra quasi strano, ma poi basta ascoltarla per sapere che pur essendo nata a Lugano ed aver abitato per i suoi primi vent’anni a Molino Nuovo, il mondo è, da sempre, la casa nella quale ha abitato: dall’Himalaya alla Patagonia, dalle Alpi alle Dolomiti. Difficile starle appresso. Praticamente impossibile condensare la vita di Silvia Metzeltin in due paginette di giornale. Così accettiamo di seguire la sua traccia narrativa, quella di una persona che sta rileggendo i giorni e gli anni della sua vita. Lei che è membro del Club Alpino Accademico Italiano, dell’Oesterreichischer Alpenverein, del Groupe de haute montagne, dell'Alpine Club britannico e di Rendez-vous Hautes Montagnes, un'associazione internazionale di alpiniste, lei dell’alpinismo è quasi una leggenda.
“No, guardi, io non sono proprio specialista di niente. Non ce l’ho proprio nel DNA. Sono una che, da sempre, insegue i suoi sogni, le sue passioni. Una su tutte: la libertà. Glielo posso dire con serenità perché sono nella fase della ricostruzione, a posteriori, della mia vita”.
“Piuttosto presto. Vede, io a Lugano sono nata per caso. Mio padre e mia madre ci sono arrivati in fuga da Madrid dove abitavano e dove infuriava la guerra civile. Io sono la prima di quattro figli e, a differenza dei miei fratelli e sorelle, ho conosciuto due genitori allegri, pieni di progetti e di sogni. Gli anni della guerra, coincisi con quelli della mia infanzia, hanno cambiato loro e anche me. La casa di Madrid era andata perduta. I soldi pure. In casa restavano i libri. Tanti libri. Mia madre nel ’34 si era laureata a Vienna in letteratura e storia. Non penso avrebbe mai accettato di separarsi dai libri e lì mi ci tuffai anch’io. Come tanti ragazzini ho amato Emilio Salgari, ma soprattutto Sven Hedin e le sue storie da esploratore. Ho cominciato a sognare il mare, ma… a Lugano il mare non c’era e allora ho deciso di arrampicarmi sulle montagne che la circondavano. Ricordo che, da adolescente, scappavo da casa in bici – e per farlo praticavo un furto d’uso - e me ne andavo sul Caval Drossa, il Camoghé o il Monte Bar. Quando arrivavo in cima speravo sempre di vedere il mare. Intorno a me, invece, c’erano tante altre cime, altre montagne. Così in me, piano piano, è nata la voglia di conoscerle da vicino”.
“Sì, certo, sono andata a scuola, ma, come le dicevo, i soldi in casa erano finiti e così, invece del liceo, mi sono trovata a frequentare la scuola di commercio. Una vera sofferenza. Pensi poi che siccome avevo rimediato una bocciatura in latino avrei dovuto/potuto fare lo scientifico, ma le donne, in quegli anni, allo scientifico non ci potevano andare e quindi non restava che la Commercio. Io però, già allora, sapevo una cosa: non volevo fare la vita di mia madre. Non volevo avere una casa, un marito e dei figli. Volevo viaggiare, conoscere il mondo e i suoi abitanti. È così che ho deciso che per fare tutto ciò dovevo laurearmi e che per laurearmi dovevo esibire un attestato di maturità. Ho cominciato a studiare da privatista e, nel frattempo, a lavorare per mantenermi agli studi: prima alla fonderia Torriani e poi da Quadri (impresa di costruzioni). Sono insomma stata una delle prime figure di studente-lavoratore e, da lavoratrice, ho imparato a costruire casette, ad occuparmi di fognature, ma anche ad allestire offerte per concorsi pubblici. Ho soprattutto imparato la differenza tra quanto c’era in casa nostra e la realtà, quella della classe operaia vera. Ho stretto i denti, mi sono sporcata le mani e sono diventata brava abbastanza per trovarmi ad avere, nella squadra che dirigevo in piccoli cantieri, operai decisamente più nerboruti di me. Intanto però studiavo. L’esame per la maturità federale l’ho dovuto dare due volte. La prima sono stata bocciata. La seconda, invece – che coincide con l’unica volta che in vita mia mi sono fatta fare un certificato medico per malattia –, sono passata con il massimo dei voti. È stata una grande soddisfazione. Lo ammetto, anche a ripensarci oggi mi dà morale. So di essere brava, ma se lo dicono anche dei dati oggettivi… è meglio”.
“No. Meglio: non subito. Io volevo fare medicina. Ricordo che giunta a Milano, in via Festa del Perdono, approfittando della vicinanza delle due file di aspiranti all’iscrizione per medicina e scienze, ho passato la mattinata a zigzagare tra le due. Poi a un certo punto ho deciso per Scienze con indirizzo geologia. Mi sono laureata, nel 1972, col 110 e lode e in seguito, per dieci anni, ho lavorato come assistente all'Istituto di Geologia dove ho poi rinunciato a una carriera in ruolo pur a concorso vinto. Ricordo quel giorno come fosse oggi, ma era maggio del 1982. Sono scesa a Milano e ho detto: grazie, ma… no. Questo lavoro a tempo pieno, chiusa in un ufficio, non fa per me”.
“No, no. Non è andata così. Ci sono nella vita momenti in cui tutto accade in contemporanea. Ebbene - ma dobbiamo tornare nel 1967 - io mi ero appena iscritta all’università ed ecco che il CAI di Trieste organizza la spedizione in Patagonia. È vero, avevo abbandonato il lavoro sui cantieri, ma per guadagnare un po’ di soldi – la spedizione è prevista sull’arco di tre mesi – ci torno. Poi, il 30 ottobre del ’67, parto per il primo viaggio verso un Paese che diventerà la mia seconda casa. A quel viaggio partecipa anche Gino Buscaini che avevo già conosciuto nel 1958 sullo spigolo Nord del Pizzo Badile. Proprio Gino, dopo quel viaggio, diventerà mio marito. Lui, quando partimmo, era pilota dell’aeronautica militare e come me e gli altri tre compagni di viaggio, rientrato non ha più fatto la stessa vita di prima”.
“Splendida. Insieme a Gino, mio marito certo, ma soprattutto il mio migliore amico, il mio compagno ideale, ci siamo posti una domanda centrale: cosa dobbiamo fare per vivere liberi? e, insieme, abbiamo risposto: ‘vivere con poco’. E così abbiamo fatto. Ci siamo riusciti perché entrambi venivamo da situazioni economiche piuttosto difficili e conoscevamo il valore dei nostri guadagni che abbiamo investito nella nostra passione: l’alpinismo. Insieme siamo andati più volte in Patagonia dove abbiamo eseguito 70 ascensioni di cui 43 prime assolute. Poi abbiamo girato il mondo. A me, personalmente, sono piaciuti molto Corea e Giappone. Pensi che quando siamo andati sull’Himalaya siamo partiti da Lugano con una vecchia Land Rover che ci faceva anche da casa. Tre mesi di viaggio attraversando paesi quali l’Afghanistan dove il mio essere donna non era certo un bel biglietto da visita. Tutti i nostri viaggi mi hanno però permesso di avvicinare realtà diverse con occhi nuovi, toccando con mano i cambiamenti che negli anni si sono prodotti ovunque. È forse anche per questo che, quando mi sono trovata ad essere docente all’Università dell’Insubria di Varese ho potuto proporre con un certo successo, lo ammetto, corsi a mia misura di Divulgazione Scientifica e Storia della Montagna. Sì, la mia vita è stata, ed è, una splendida avventura”.
“Sì, è stato stroncato da un infarto. Eravamo nelle Dolomiti. Noi facevamo tutto insieme. Le spedizioni e i viaggi, certo, ma anche i libri. Lui curava le mappe, le illustrazioni, le fotografie. Io i testi. Era il nostro modo di condividere con gli altri la nostra passione per la montagna e per la libertà. Avevamo, anche in quel viaggio, un preciso programma e, come sempre, la nostra casa era la nostra automobile. Non più la Land Rover – che costava troppo – ma una VW Golf. Ci siamo salutati proprio lì, su quell’auto. Lui ha capito che se ne stava andando. Mi ha sorriso e mi ha detto: ‘Silvia, ti voglio bene. Ho avuto, con te, una vita bellissima’. È stato difficile separarmi da lui, ma, in definitiva, non ci siamo lasciati mai. Adesso, grazie alla Fondazione Giovanni Angelini di Belluno (Centro Studi sulla Montagna) e alla Società Alpina Friulana di Udine, sta per uscire un libro dedicato proprio a Gino: "Scalate di penna e grafite". L’editore è Ronzani e il libro verrà presentato a Udine il 18 luglio. Gino, oltre ad essere un alpinista provetto, era un disegnatore davvero eccezionale, un femminista ante-litteram, un uomo profondamente libero. È grazie anche a lui, all’aiuto e all’appoggio che non mi ha mai fatto mancare, se io oggi posso ancora essere e vivere in piena libertà il mio essere donna”.