Chi pensa che i calciatori – o gli ex calciatori – alla fine raccontano sempre le stesse cose, di certo non conosce Renzo Bionda. Fresco ottantenne, storico capitano del Bellinzona ed illustre ex di Zurigo, Chiasso e della nazionale rossocrociata è un fiume in piena quando il discorso si sposta sull’amato pallone, sugli aneddoti e sulle storie di una vita. Una serie di rimbalzi tra ricordi d’un tempo e attualità, che fanno volar via come una foglia d’autunno l’ora abbondante di intensa chiacchierata con l’ex bandiera “granata”, un “footballeur” d’altri tempi.
Ai miei tempi non è che ci fossero grandi alternative (ride). Ma io a Preonzo il pallone l’ho sempre avuto tra i piedi, molto spesso anche da solo. Credo di avere il calcio nel sangue. Non ho scelto il calcio, semmai il è il calcio che ha scelto me. L’hockey su ghiaccio, ad esempio, non è ‘naturale’, nel senso che per giocare, devi saper pattinare bene. Mentre al calcio basta che corri, ed è molto più facile da imparare.
A Preonzo, il sogno di ogni ragazzino era quello di giocare negli allievi A della squadra del Paese. Quindi era anche il mio. La prospettiva di giocare nel Bellinzona non era nemmeno pensabile, avevo vergogna anche solo a parlarne a quei tempi. Ma mio zio – che viveva a casa con noi e aveva intuito le mie qualità – non la pensava così. Con uno stratagemma convinse me e la squadra del ginnasio dove giocavo di aver organizzato un’amichevole contro gli allievi del Bellinzona. In realtà fu un allenamento in cui mi fecero firmare un formulario in cui dichiaravo che avrei giocato per il Bellinzona. Ero arrabbiatissimo, non parlai con mio zio per molto tempo. Penso fosse una questione di timidezza, prima di ogni altra cosa.
A convincermi fu Dell’Era, che era il portiere della squadra del ginnasio. Non fu un’impresa semplice neanche per lui, che pure era mio amico. Alla fine diventai un giocatore del Bellinzona negli allievi C.
Cinque, esatto. Campo della Morettina, contro il Solduno. Non sapevo neanche con che squadra stessi giocando (ride). E non mi allenavo quasi mai, perché nessuno mi portava a Bellinzona da Preonzo nel corso della settimana. Avrei potuto venirci in treno, che era l’unica possibilità, ma ci avrei messo troppo tempo e quindi erano le partite della domenica i miei allenamenti. Oggi sarebbe impensabile. Sono praticamente arrivato in prima squadra senza allenarmi quasi mai.
Ho esordito a Porrentruy, nel canton Giura. Avevo 18 anni e dovettero battersi per convincermi ad accettare di giocare. Detto oggi sembra una cosa da pazzi, un giovane farebbe carte false per esordire in prima squadra. Il titolare Michele Rebozzi era rientrato stanco dal servizio militare e l’allenatore Mezzadri aveva scelto me. Ma io non avevo mai giocato in difesa, tanto più nel ruolo di stopper. Nel Porrentruy giocava Josef Hügi, che era sì a fine carriera, ma era stato il bomber del Basilea... Alla fine giocai. Finì 0-0 e da quel giorno ho sempre giocato al centro della difesa, anche se segnare mi ha sempre divertito di più.
Un grande onore, certo. Ma il ruolo non era poi molto diverso da quello degli altri giocatori...
...che a Zurigo avrei dovuto rimanerci, non tornare in Ticino! A bocce ferme e ad anni di distanza è ancora un cruccio. Ma questa è una storia che va raccontata dall’inizio.
L’imprenditore Otto Scerri (sono anche stato suo dipendente) diventa presidente del Bellinzona, ma dopo qualche tempo rinuncia alla carica. La sua priorità prima di lasciare è però quella di risanare le finanze della società. E per farlo, la scelta è quella di vendere il sottoscritto. Allora lavoravo all’Insai, oggi Suva. Scerri mi convocò nel suo ufficio in centro città, dove mi ritrovai davanti il presidente dello Zurigo Nägeli, che a quel tempo aveva una casa a Ponte Tresa, pronto ad acquistarmi. Mi diedero 2 o 3 giorni per decidere. L’idea di andare in una squadra competitiva mi attirava, quindi feci i bagagli e con la famiglia (avevo già un figlio), presi la strada per Zurigo.
Semi-professionista. Per due anni. Continuavo a lavorare alla Suva a Zurigo per mezza giornata. Poi per i secondi due anni, la società doveva risparmiare, tornammo ad allenarci solo la sera. Pensi che la società rimborsava alla Suva le ore di assenza dal lavoro.
Con lo Zurigo abbiamo vinto 2 campionati e 2 coppe svizzere. Con l’allenatore Timo Konietzka avevo un gran rapporto, ero sempre titolarissimo, non mi mancava nulla. Ma avevo famiglia, il primo figlio avrebbe iniziato di lì a poco la scuola, avevamo già costruito casa in Ticino e a Zurigo pagavo un secondo appartamento, il posto alla Suva a Bellinzona era ancora disponibile,... mi lasciai trascinare dagli eventi. Ritrovandomi a fare la spola 5 volte la settimana tra Bellinzona e Chiasso – dove avevo accettato di giocare – e finendo per vedere poco o nulla i miei figli e mia moglie. A 33 anni, rischiai di fare un incidente in autostrada, perché mi stavo addormentando. Rientrato a casa dissi a mia moglie che avrei smesso.
A quei tempi le amichevoli non venivano conteggiate e quindi le statistiche indicano una mia sola apparizione, in una sconfitta contro Cipro rimediata in trasferta su un campo infame. Ma in realtà ho giocato altre 6 o 7 partite, compresa una a Berlino contro la selezione tedesca insieme a Ely Tacchella. Erano tempi duri per i ticinesi con la maglia rossocrociata...
Beh, il minimo che si possa dire è che Karl Rappan non vedesse di buon occhio i ticinesi. Convocava raramente addirittura Mario Prosperi, che era il numero uno indiscusso in Svizzera. Ma le racconto un aneddoto personale: quando arrivai a Zurigo, il libero della nazionale era Baumgartner, arrivato a Zurigo dallo Young Boys prima di me. Dal mio arrivo, è diventato la mia riserva. Ma il posto in nazionale l’ha tenuto lui...
Giocavamo spesso amichevoli contro Inter e Milan. A volte a Bellinzona, a volte all’Arena. Ero capitano in quel periodo e dopo una partita giocata a Bellinzona contro i rossoneri del Barone Liedholm andammo a cena con i dirigenti delle società. Capitano del Milan era Cesare Maldini (cita a memoria la formazione, ndr.). Mi venne chiesto se fossi interessato ad andare a Milano a fare il professionista e io risposi ovviamente che ci sarei andato di corsa. Ci salutammo dicendo che ne avremmo riparlato. Ma alla fine di quella stagione, in Italia venne introdotto il blocco degli stranieri. Non so se la trattativa avrebbe portato a qualcosa, ma di certo quella regola non mi aiutò.
Seguo ancora il calcio, ma seleziono cosa vedere. A dire la verità non mi piace molto il modo in cui si gioca oggi, non ci sono ormai più giocatori capaci di saltare l’uomo, di fare la bella giocata individuale, fantasiosa. È un calcio quasi codificato, poco istintivo. Si frena la fantasia già negli allievi e questo lo trovo gravissimo.
A memoria credo che Bottani e Marchesano siano in effetti rimasti gli ultimi due in Super League. A mio modo di vedere i giovani ticinesi oggi prediligono una formazione solida rispetto ai sogni calcistici, spesso alimentati dai procuratori e dalle loro promesse di guadagno. In fondo non credo sia un male. Certo, a diventare calciatori sono meno, ma...
Ho smesso due anni fa e mi è dispiaciuto parecchio. Ho gestito per 5 anni la scuola calcio del Preonzo, ma poi sono rimasto con 3 soli bambini e abbiamo dovuto rinunciare a malincuore. Oggi i bambini di Preonzo vanno a Claro, dove c’è una struttura che permette loro di confrontarsi con altri coetanei. Ed è giusto così.