“Benvenuti nel mondo di Trump”. Non è il titolo di un romanzo distopico alla Aldous Axley, bensì la frase che troneggia sulla copertina dell’ultimo numero dell’Economist, quello immediatamente successivo alle elezioni presidenziali USA 2024. Ma come sarà il mondo di Trump? Vedrà realizzarsi il sogno del ritorno all’età dell’oro o si trasformerà nell’incubo di una presidenza dispotica? Quale opposizione domestica e internazionale è destinato ad incontrare? Trump porterà alla fine delle guerre con una telefonata o diverrà alleato dei tiranni? Ed infine come si districherà nel labirinto dei diritti civili e della protezione dell’ambiente? Un poco di pazienza e le risposte non tarderanno ad arrivare da parte del 47° Presidente degli Stati Uniti e della sua Amministrazione. Lasciamoci sorprendere, la politica è fatta di compromessi e forse di risposte meno fosche rispetto a quelle che i più si aspettano. In fin dei conti, siamo sopravvissuti al suo primo mandato, peccato si sia concluso come peggio non poteva.
L’ uomo forte alla Casa Bianca
Il 5 novembre la priorità è stata scegliere un Presidente capace di attuare quei cambiamenti di cui l’America avrebbe bisogno, questo hanno dichiarato gli elettori negli exit polls. È così che Donald Trump rientra alla Casa Bianca non come golpista fallito, ma con il fascino dell’uomo forte che sa come riparare una Nazione in difficoltà. Durante la campagna ha convinto gli americani che l’economia è allo sbando, anche se non è vero. Gli elettori lo hanno seguito, in particolare negli Stati in cui a pagare lo stipendio alla gente comune non sono i laboratori dell’intelligenza artificiale, ma l’industria tradizionale, dall’automotive del Michigan alle acciaierie della Pennsylvania. Ma questo è il passato. Da gennaio Trump non potrà limitarsi a mentire e a criticare, dovrà consegnare progressi concreti, per di più agendo da solo. Dopo l’assalto a Capitol Hill, per realizzare i suoi programmi non potrà certo contare su una collaborazione bipartisan con la destra democratica, come quando necessario faceva Ronald Reagan. “Fix it Trump”, così si leggeva sui cartelli che negli ultimi giorni della campagna sventolavano al Madison Square Garden e a West Palm Beach. Oggi Trump si mostra sicuro di farcela, così come ieri si diceva sicuro di vincere le elezioni. Del resto, è lui stesso a ricordarcelo, il Signore è dalla sua parte. Non a caso gli ha salvato la vita tre volte “for a reason”. Un buon motivo per citare “In God We Trust”, il motto degli Stati Uniti, nel corso dei suoi discorsi più accaniti, e non solo per gratificare le fasce più estreme dell’elettorato, dalla destra evangelica e pentecostale ai circoli suprematisti. Lui ha una missione da compiere, “Making America Great Again”, e non può fallire. Dovrà però superare non poche sfide, a partire da quella brillantezza dell’economia che ha promesso come sicura ma che consegnare gli sarà difficile e dalle relazioni con gli Stati e le città a governo democratico che già stanno organizzando la difesa dei diritti civili, e hanno i mezzi legali per farlo.
Prima sfida: consegnare crescita senza inflazione
“It’s the economy, stupid!”. Così predicavano gli strateghi di Bill Clinton durante la campagna 1992, quando il giovane e poco conosciuto candidato democratico incentrava il proprio messaggio sulle riforme economiche e sul cambiamento. Trump ha imparato la lezione e ha vinto, Harris la ha ignorata e ha perso. Ma l’economia è un cavallo bizzoso che non sempre galoppa nella direzione desiderata dal cavaliere. Come detto, Trump ha bistrattato la performance di Biden e gli elettori gli hanno creduto. Ma i numeri raccontano una storia diversa. L’Amministrazione democratica ha condotto l’America fuori dalla recessione pandemica investendo migliaia di miliardi di dollari in programmi di sviluppo e creando più di otto milioni di posti di lavoro fra il 2022 e il 2024. Per il 2024 l’inflazione media è stimata al 3.3% e la crescita del prodotto interno lordo al 2,7%, più del doppio di quella Svizzera. Il tasso di disoccupazione si mantiene attorno al 4%, nella fascia bassa delle medie storiche. Questo pone un problema a Trump, che ha promesso una crescita economica maggiore e un’inflazione percepita minore rispetto al passato, a vantaggio della working class. Se invece l’economia dovesse rallentare, così come al momento è previsto per il 2025, allora non sarà più l’uomo della provvidenza che aggiusta tutto e difficilmente confermerà la doppia maggioranza al Congresso in occasione delle elezioni del mid-term nel 2026. Forse anche per questo Xi Jinping rimanda il programma di stimolo dell’economia cinese all’anno nuovo, per avere merce di scambio. Forse proprio per questo Trump si è infuriato per il taglio dei tassi ufficiali deciso il 6 novembre senza che lui fosse consultato. L’accelerazione deve arrivare fra sei mesi, non oggi! Non può certo silurare Jerome Powell, ma presto lo sostituirà con un banchiere centrale più obbediente. In fin dei conti, è la Federal Riserve a stampare le banconote, quei biglietti verdi che, in stampatello, riportano il motto che il Presidente ama fare suo, “IN GOD WE TRUST”.
Seconda sfida: gestire il conflitto fra l’Unione e i 23 Stati a guida democratica
Elezioni presidenziali 2024: i Repubblicani vincono per KO mentre i Democratici rantolano al tappeto. Con solo una ventina di seggi ancora da assegnare alla Camera, per i primi sembra acquisita la conquista della trifecta, parola di derivazione latina che in gergo ippico indica la scommessa vincente sui primi tre cavalli classificati, nel linguaggio politico la conquista contemporanea di Presidenza, Camera e Senato. A questi si aggiunge la Corte Suprema, la cui maggioranza conservatrice ha sdoganato verdetti controversi, a cominciare dal ribaltamento di Roe v. Wade, il diritto costituzionale all’aborto. I Repubblicani sono sì vincitori, ma per durare nel tempo l’ampio potere acquisito va amministrato con saggezza e questa non è la migliore dote di Trump. I Democratici sono morti se visti come partito nazionale, ma questo non è vero a livello locale. Il 5 novembre hanno confermato tutti e tre i loro Governatorati che andavano in votazione, mantenendo il numero degli Stati democratici a ventitré su cinquanta, inclusi California, New York e Pennsylvania, tre fra i cinque più popolosi dell’Unione. “Non ho sentito la campana” è il famoso incitamento di Mickey a Rocky Balboa. Forse lo pensano anche i Governatori democratici che hanno allo studio il programma “Resistance 2.0”. Il significato è chiaro: immunizzare gli Stati democratici dalle politiche trumpiane e contribuire al rilancio del partito azzerando il Comitato nazionale, ponendo così fine all’era dei clan, a cominciare dai Clinton e dagli Obama. Per il 2028 la riscossa passerà dalla ricerca di una o un candidato che, come i grandi leader del passato, possa ridefinire il partito, non essere ad esso subordinato. Così ha fatto Trump con i Repubblicani, ma fra quattro anni non si potrà ripresentare, non perché l’America sarà tornata ad essere grande, bensì perché glielo impedirà il ventiduesimo emendamento.
Ma a noi europei piacerà vivere nel mondo di Trump?
Donald Trump ha due pregi, dice chiaramente quello che intende fare e sa ricorrere ad ogni mezzo per realizzarlo. Fra le molte promesse della campagna, due ci devono vedere concordi: portare la pace in Ucraina e in Palestina e realizzare una nuova visione della pubblica amministrazione, moderna e digitalizzata. Un modello che, se di successo, sarà poi esportabile alle nostre latitudini. Lo consentiranno i suoi amici Putin e Netanyahu? Ci riuscirà Elon Musk, che pure ha già dimostrato di saper lanciare i missili meglio della NASA? Trump ha però aggiunto altri obiettivi, inaccettabili per chi crede nell’economia liberale, nella conservazione dell’ambiente e nelle libertà individuali. Purtroppo non sono pochi, dall’imposizione di tariffe diffuse all’indebolimento della NATO, dall’uscita dagli accordi di Parigi alla vendetta come strumento della politica. Preoccupante è anche come il Presidente sta costruendo la squadra di governo, per i cui membri intenderebbe addirittura richiedere l’esenzione dall’approvazione del Senato, che pure controlla. Tutto ciò fa parte di “America first”, non proprio quello che ci aspetteremmo da una potenza illuminata. Ci piacerà vivere in questo mondo? Sarà tollerabile per le élites degli Stati dell’Est e della California? Forse no, ma non tutto è perduto. Un conto è votare un Presidente con la pancia e non con il cervello, un altro è accettare la trumpizzazione dell’America senza lenirne gli eccessi. In “God We Trust”, questa volta lo scriviamo in corsivo, come lo concepì Beniamino Franklin ai tempi coloniali quale invocazione alla libertà.